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Clausole vessatorie: Apple condannata per abusi nei contratti iCloud

Tempo lettura: 4 minutiIl Consiglio di Stato conferma la sanzione all’azienda: ecco cosa devono sapere utenti e aziende sulle clausole vessatorie nei servizi digitali per non incappare in sanzioni

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Il parere dello Studio IUSGATE

 

Una recente sentenza del Consiglio di Stato contro Apple segna un punto di svolta nella regolamentazione dei contratti digitali in Italia. Questo caso emblematico – che conferma la sanzione inflitta al colosso tecnologico per le clausole vessatorie nei contratti iCloud – merita particolare attenzione non solo per la rilevanza dell’azienda coinvolta, ma soprattutto per i principi fondamentali che stabilisce.

 

La decisione ribadisce un concetto troppo spesso ignorato: la digitalizzazione dei servizi non può tradursi in una diminuzione delle tutele contrattuali per i consumatori. Particolarmente significativo è il principio secondo cui anche i servizi “gratuiti” sono soggetti alle norme sulla vessatorietà, sfatando il mito del “se non paghi, sei tu il prodotto”.

 

Il caso Apple-iCloud rappresenta dunque un monito per tutte le aziende tecnologiche operanti nel mercato italiano ed europeo, grandi e meno grandi: l’innovazione deve procedere di pari passo con la trasparenza. In un’epoca in cui affidiamo quantità crescenti di dati personali alle piattaforme cloud, la sentenza vuole riequilibrare opportunamente il rapporto di forza tra fornitori di servizi e utenti, costringendo anche i giganti della tecnologia a rispettare i principi basilari del diritto dei consumatori.

 

Vediamo di seguito il perché.

 

 

Il caso Apple-iCloud: vediamo i fatti

 

Con la pronuncia dell’11 febbraio 2025, n. 1125, i giudici di Palazzo Spada hanno confermato la sanzione a carico di Apple per aver inserito clausole abusive/vessatorie per i consumatori nelle condizioni di iCloud, violando i diritti dei consumatori. Un monito per tutte le Big Tech: la trasparenza contrattuale non è negoziabile.

 

Clausole vessatorie nel caso Apple: le violazioni contestate

 

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva sanzionato Apple nel 2021 per clausole vessatorie inserite nei contratti di iCloud, sia nella versione gratuita che a pagamento.

 

Dopo il ricorso al TAR Lazio, il Consiglio di Stato ha confermato tre illeciti chiave:

  • Modifiche unilaterali al contratto (art. 33, lett. m) Codice del consumo)
    Apple si riservava il diritto di alterare unilateralmente le condizioni del servizio, senza indicare “giustificati motivi”. Una prassi tipica delle clausole vessatorie che lede la stabilità contrattuale.
  • Limitazione dei diritti degli utenti (art. 33, lett. b) Codice del consumo)
    Le clausole sub b) e c) impedivano azioni legali in caso di malfunzionamenti, svantaggiando i consumatori.
  • Obbligo di backup a carico dell’utente
    Apple trasferiva il rischio di perdita dati sugli utenti, escludendo ogni responsabilità.

 

Perché le clausole vessatorie di Apple sono state giudicate illegittime?

 

Il caso chiarisce due principi fondamentali:

– la gratuità non giustifica squilibri: Apple aveva sostenuto che le norme sulle clausole vessatorie non si applicassero a iCloud gratuito. Il Consiglio di Stato ha respinto l’argomento: anche i servizi “free” perseguono interessi economici (es. fidelizzazione) e devono rispettare l’equità. In particolare, qualora la gratuità sia giustificata da un interesse giuridicamente apprezzabile dell’impresa (ad esempio la fidelizzazione del cliente) e sussista un interesse parimenti del consumatore a conservare un determinato regime giuridico con impatto su un servizio di sua utilità;

– trasparenza obbligatoria nelle limitazioni di responsabilità: le clausole vessatorie relative al backup sono state ritenute ingannevoli. Non definivano chiaramente i limiti del servizio, né garantivano tutele minime agli utenti.

 

 

Clausole vessatorie nei contratti digitali: implicazioni per aziende e consumatori

 

Per gli utenti: da un lato il diritto a contestare modifiche unilaterali penalizzanti (es. riduzione spazio di archiviazione); dall’altro, la possibilità di agire legalmente in caso di perdita dati dovuta a negligenza del provider.

 

Per le aziende: non esiste nessuna immunità per i servizi a rinnovo automatico. Le modifiche unilaterali, difatti, richiedono motivazioni specifiche e preavviso adeguato, oltre a un potenziale processo di ri-accettazione. Inoltre, occorre fare attenzione al “gratuito”: le clausole vessatorie restano vietate anche in assenza di corrispettivo economico. Tra l’altro, si è chiarito in altre sedi come la mancanza di corrispettivo economico potrebbe comunque non configurare una “gratuità” se il “prezzo” da pagare consiste nell’uso di dati personali dell’utente per fini di marketing.

 

Infine, chiarezza nelle limitazioni di responsabilità: eventuali termini generici (es. “secondo la legge applicabile”) sono insufficienti.

 

 

Clausole vessatorie e cloud storage: un precedente storico

 

La sentenza solleva questioni cruciali per l’era digitale: come bilanciare innovazione e tutela dei consumatori?

 

Il Consiglio di Stato richiama la Direttiva UE 93/13/CE: le clausole vessatorie sono inaccettabili anche in servizi complessi come il cloud.

 

Esempio pratico: se iCloud perdesse dati per un errore tecnico, Apple non potrebbe rifugiarsi in clausole abusive, bensì dovrebbe dimostrare di aver agito con diligenza.

 

 

Clausole vessatorie: lezioni per il futuro

 

Il caso Apple-iCloud segna una svolta:

  • Le aziende devono dimostrare attivamente la correttezza delle condizioni contrattuali.
  • I consumatori hanno strumenti più solidi per difendersi da clausole vessatorie nascoste nei contratti digitali.

 

Per le Big Tech, il messaggio è chiaro: l’autonomia contrattuale non può sovrastare i diritti degli utenti. Per tutti, un invito a leggere (finalmente!) le condizioni di servizio, ricordando che comunque l’AGCM è l’autorità deputata a ricevere segnalazioni e a comminare sanzioni amministrative per queste casistiche.

 

Detto questo, la pronuncia potrebbe prestare il fianco anche ad alcuni risvolti critici: il principio secondo cui anche i servizi gratuiti debbano sottostare alle medesime regole di quelli a pagamento – persino nobile nelle intenzioni – potrebbe rivelarsi problematico nell’applicazione pratica. Le aziende potrebbero rispondere semplicemente eliminando le versioni gratuite dei loro servizi piuttosto che sottoporsi a obblighi di responsabilità sproporzionati rispetto ai benefici economici derivanti. Inoltre la sentenza sembra non considerare sufficientemente la necessità delle piattaforme cloud di poter modificare i loro termini in risposta a rapide evoluzioni tecnologiche e normative. Un eccesso di rigidità potrebbe, paradossalmente, rallentare l’innovazione e limitare la competitività delle aziende nel mercato italiano.

 

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